Sono moltissimi, nascosti nelle fogne, sotto i tombini, perfino nei vicoli stretti e semiabbandonati: e lo sappiamo perfettamente, anche senza vederli, e sebbene abitualmente preferiamo di gran lunga non rifletterci troppo, e pensare ad altro. Li colleghiamo immediatamente alle idee di sozzura, di infermità, nientemeno – metaforicamente – di disonestà e falsità; non appena ne scopriamo le tane, abbiamo subitaneo l’istinto di eliminarli totalmente, senza perdere tempo, applicando una risoluzione, e provando un senso di repulsione, che pochi altri animali ci infondono. Gli animali di cui stiamo parlando sono i ratti, e l’opera tesa a localizzarli, sterminarli, e garantirsi che non possano ritornare è detta derattizzazione.
C’è almeno qualcosa di vero, anche se assolutamente non tutto, nel disegno quasi spietato che siamo soliti fare di questi animali: ed è il fatto che rappresentano, in effetti, una seria minaccia all’igiene e alla nostra salute. Questo è dovuto, essenzialmente, a due ragioni non trascurabili. La prima di queste è che i ratti abitano zone in effetti sporche e contaminate: di regola, li troviamo nei depositi di rifiuti, come le discariche, o addirittura nelle fognature.
E benché il ratto sia per sua tendenza un animale pulito, quando si trova a vivere in questi ambienti gli è impossibile fuggire il contatto con batteri e agenti patogeni, tanto che un ratto selvatico che abita nelle fogne, facendo una stima, può essere portatore di una trentina di malattie che può trasmettere all’uomo, fra cui alcune responsabili di epidemie e morti come il tifo e la peste bubbonica. La seconda motivazione sta nella prodigiosa prolificità dei ratti stessi, che permette loro di mettere al mondo cucciolate di anche una decina di piccoli dopo sole tre settimane di gestazione, di riaccoppiarsi già poche ore dopo il parto, e di essere maturi per la procreazione dopo sole otto settimane.
Questi pochi dati sono certamente sufficienti a chiarire l’attenzione che viene posta alla derattizzazione, e la premura con cui questa viene effettuata. Un progetto di derattizzazione si articola normalmente in tre fasi distinte:
il monitoraggio, durante il quale di analizza a fondo l’ambiente che risulta infestato, si valuta quale sia l’effettiva forza numerica dei ratti presenti, e quindi quanto sia radicata l’infestazione, e si prepara un meticoloso piano di intervento;
l’intervento propriamente detto, circostanza in cui si mettono in atto le tecniche di offensiva previste nel piano d’opera, come trappole e veleni;
il controllo, in cui si effettua la verifica dei risultati ottenuti per assicurarsi che la soluzione raggiunta non sia di durata momentanea ma definitiva e risolutiva.
Il “nemico”, nel caso dei roditori, non è infine uniforme: passiamo infatti dal topo campagnolo, una piccola creatura scavatrice che solitamente attacca le coltivazioni, e che si combatte spargendo sostanze velenose, ai topi comuni, che vanno combattuti con esche avvelenate e attenta sigillatura delle aree di rifugio, fino ai surmolotti o ratti marroni, creature decisamente sotterranee, e che vanno combattute dall’esterno dell’area infestata andando verso l’interno per evitarne migrazioni – tenendo conto che un ratto è in grado di aprirsi un passaggio anche attraverso metalli teneri e perfino cementi magri.